Un vecchio antiinfiammatorio, sviluppato in Giappone per il suo effetto antiasmatico ma messo poi da parte per l’arrivo di farmaci più efficaci, avrebbe effetto nel ridurre i livelli di glucosio nei pazienti affetti da diabete di tipo 2. A dimostrarlo è stato uno studio coordinato da Alan Saltiel, direttore dell’Institute for Diabetes and Metabolic Health dell’Università della California di San Diego. I risultati sono stati pubblicati sul Cell Metabolism. Lo studio è partito quando il team di scienziati, insieme a ricercatori del Salk Institute e dell’Università del Michigan, ha scoperto che, negli animali da laboratorio obesi, i livelli di due enzimi chiamati IKKε e TBK1 sono aumentati, rendono così più difficile in questi animali bruciare calorie e consumare energia. Così, i ricercatori hanno analizzato più di 150 mila molecole alla ricerca di un composto che riuscisse a inibire questi enzimi e hanno trovato che proprio amlexanox può avere effetto su questo sistema. Saltiel e colleghi hanno mostrato che alcune persone con diabete di tipo 2 hanno fatto registrare una significativa riduzione dei livelli di glucosio dopo aver assunto il farmaco. In particolare, gli scienziati hanno testato l’antiasmatico su 21 persone obese e con diabete di tipo 2, confrontando questo gruppo con un controllo al quale somministravano semplicemente un placebo. Dai dati raccolti è emerso che un terzo delle persone che assumevano il farmaco ha risposto alla terapia. Inoltre, avrebbero risposto bene anche i pazienti affetti da steatosi epatica non alcoolica (NAFLD). I ricercatori americani hanno voluto capire poi cosa distingueva i pazienti che avevano risposto al trattamento da quelli che non avevano risposto e hanno eseguito, così, biopsie sulle cellule del tessuto adiposo all’inizio e alla fine dello studio. Hanno individuato più di 1.100 cambiamenti genetici che sarebbero stati indotti da amlexanox, modifiche invece assenti tra i pazienti che non avevano risposto al farmaco. Dalle biopsie sarebbe anche evidente il collegamento con l’infiammazione, che era più elevata, all’inizio, nel gruppo di pazienti in cui il farmaco ha funzionato, indicando che “c’è qualcosa a livello di infiammazione che predispone una persona a rispondere alla terapia”, ha spiegato Saltiel. Il progetto è uno dei tanti che cerca di trovare nuovi obiettivi per il trattamento dei disturbi metabolici. Un altro approccio riguarda la trasformazione del tessuto adiposo bianco in quello bruno, i cui adipociti bruciano energia e sembrerebbero essere in grado di sfidare l’obesità. Inibire gli enzimi infiammatori è invece un approccio completamente nuovo. “È un meccanismo promettente, ma ci sono ancora molti punti da risolvere”, ha concluso il ricercatore.