Si parla, ormai da diversi anni, dei big data e del loro impatto sulla ricerca nel settore farmaceutico.
Meno si sa degli small data e della loro utilità.
Molti player hanno iniziato a sviluppare i big data “sfruttando la ricchezza di database di grandi dimensioni, archivi pubblici, dati sui brevetti e di letteratura scientifica. Ed è stato importante per inziare”, dice Andrew Hopkins, CEO di Exscientia, un’azienda che utilizza una piattaforma basata sull’intelligenza artificiale per la progettazione di farmaci.
Tuttavia, lavorare con i database esistenti, per quanto grandi, non è un percorso diretto verso l’innovazione: “Abbiamo capito rapidamente che se si utilizzano modelli di apprendimento automatico dipendenti da una grande quantità di dati, c’è il rischio che la maggior parte dei progetti riguardino aspetti già ben studiati”.
Gli “small data”, continua Hopkins, sono “l’arma futura contro i problemi che dobbiamo veramente risolvere”. In definitiva, ogni progetto di scoperta di nuovi farmaci inizia come un progetto di piccoli dati.E, naturalmente, è qui che si trova anche l’aspetto commerciale”.
L’obiettivo è quello di inventare nuovi composti e quindi di ottimizzarli, cercando di capire cosa sia necessario fare per arrivare, alla fine, a un candidato farmaco.
Perché, comunque, dopo tutto, un principio attivo non fa un farmaco. Deve infatti rispondere ad altri criteri, come la selettività verso il bersaglio, o la solubilità nell’organismo, prima di diventare un probabile farmaco.
“All’inizio di un progetto di scoperta di nuovi farmaci potrebbero essere candidati anche cinque principi attivi, ma non conosci la loro selettività, la loro solubilità o molte altre cose”, sottolinea Willem van Hoorn, responsabile scientifico di Exscientia.
E qui entrano in gioco gli small data.