Il Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza), con la sua iniezione di risorse, seppure in buona parte da restituire a Bruxelles, rappresenta un’opportunità enorme e unica per ammodernare e traghettare il Ssn nel futuro. Se questo aspetto è stato più volte sottolineato, soprattutto dalla politica ma anche da manager e clinici, meno si è parlato delle zone d’ombra del progetto di riforma che consisterà, soprattutto, nel realizzare una vera e propria rivoluzione della sanità territoriale e delle cure intermedie. È proprio sui dubbi e sulle criticità di questo percorso che si è invece concentrata la sesta puntata di SaniTalk (il progetto realizzato da Sics Editore con il supporto di Alfasigma) realizzata nell’ambito del 47º Congresso Nazionale Anmdo (Associazione Nazionale Medici Direzioni Ospedaliere) con l’obiettivo di sollecitare il dibattito prima che questi nervi scoperti possano in qualche modo vanificare gli ambizioni obiettivi del progetto in atto.
A parlarne, al Congresso Anmdo sono stati Luciano Pletti, vicepresidente Card; Lorenzo Cammelli; direttore sanitario e direttore dei Servizi specialistici, Igiene, Qualità e Risk management dell’Asp Golgi Redaelli Milano; Claudio Lazzari, direttore Medico del presidio ospedaliero di Cesena; Claudio Martini; dirigente “Territorio e integrazione Ospedale e Territorio” dell’Agenzia sanitaria Regionale delle Marche; Rosario Cunsolo, direttore medico dell’Ospedale Santa Venera e Santa Marta di Acireale dell’Asp Catania; Francesco Longo, professore del Dipartimento di Social and Political Science all’Università Bocconi di Milano; Teresa Tedesco, direttore medico facente funzioni del presidio ospedaliero Gubbio-Gualdo Tadino POU Funzioni Governo Clinico e Gestione Liste di attesa; Clemente Ponzetti, coordinatore sanitario del Policlinico di Monza; Antonio D’Urso; Vice presidente Fiaso e direttore generale dell’Asl Toscana Sud Est; Fabia Franchi, Responsabile dell’Assistenza Territoriale Regione Emilia Romagna; Emanuele Ciotti, presidente Card Emilia Romagna e Direttore sanitario Ausl Ferrara.
Luciano Pletti, vicepresidente della Confederazione Associazioni Regionali di Distretto, ha aperto il dibattito evidenziando come uno dei capisaldi del Pnrr sia, appunto, la continuità delle cure, “che è il core business del Distretto”. In qualche modo il Pnrr rappresenta, dunque, l’opportunità per la Card di portare a compimento la missione per la quale è nata. Cioè per dare finalmente al Distretto quello ruolo di regia dell’assistenza sul territorio che si concretizza, poi, con la presa in carico completa dei cittadini nella fase post acuzie ma anche nel corso di tutta la vita.
Pletti ha voluto tuttavia evidenziare come il tema della cronicità “non riguarda solo l’assistenza territoriale, quindi i Distretti, ma il sistema nella sua interezza, quindi anche gli ospedali”. Parlare di “ospedale che tratta le acuzie e di Distretto che si occupa di cronicità è un errore e un pregiudizio ampiamente superato. La persona con malattia cronica spesso presenta, nel corso della vita, delle acutizzazioni e complicanze che richiedono il ricorso all’ospedale. Allo stesso modo una malattia acuta può cronicizzarsi o causare comunque l’insorgenza di una patologia cronica. Questo dimostra come le riflessioni, quando si parla di salute, devono essere di sistema. Dobbiamo abbandonare la logica dei silos ed è per questo che oggi distretti e ospedali sono qui a confrontarsi insieme”.
Per Claudio Lazzari certo è che il percorso di riforma pensato e tracciato con il Pnrr e il DM71 non deve porta a “retrocedere neanche di un centimetro rispetto agli elementi fondanti della legge 833/78 istitutiva del Servizio sanitario nazionale”. L’obiettivo è “maggiore sostenibilità e innovazione del sistema, non minore tutele”.
Per il direttore medico del presidio ospedaliero di Cesena la pandemia ha dimostrato che questo obiettivo, per quanto complesso, può essere raggiunto. La riorganizzazione sanitaria imposta dal Covid, peraltro in tempi rapidissimi, ha consistito di esprimere, secondo Lazzari, elementi “positivi connessi, ad esempio, alla collaborazione tra professionisti”. Tra le maggiori sfide, oggi, secondo Lazzari, c’è lo sviluppo omogeneo ed efficiente delle COT in tutto il territorio nazionale: “Dobbiamo fare in modo che ci sia una regia unica, che consenta di tenere saldi tutti i nodi della rete assistenziale. Che abbia, in sintesi, una visione di sistema, favorendo il flusso dei pazienti e il passaggio da un setting assistenziale all’altro”.
C’è un grande lavoro da fare a livello organizzativo ma, anzitutto, ha detto Claudio Martini, c’è “una barriera culturale da abbattere”, ed è quella che divide ospedale e territorio. “Inutile nascondere che c’è una base di diffidenza e pregiudizio tra i professionisti dell’uno e dell’altro ambito assistenziale, che è stata alimentata anche da una certa difficoltà organizzativa del sistema. Occorre una legittimazione reciproca, negli specifici ambiti d’attività. Il sistema deve creare le condizioni per cui avvenga ma anche i professionisti devono compiere uno sforzo culturale”. Per Martini bisogna, quindi, trovare “occasioni di integrazione”, ma anche “un linguaggio comune tra i sistemi informatici del livello territoriale e ospedaliero. Oggi questi sistemi spesso non si parlano neanche tra ospedali”.
Per il dirigente della Regione Marche, tuttavia, la cosa più urgente che la politica deve fare è parlare di organici. “E’ impossibile pensare, ad esempio, di raggiungere il 10% della popolazione sopra i 75 anni assistita in Adi per il 2026 con l’attuale carenza di risorse umane”. Altra parola d’ordine sarà anche formazione, “a cominciare dai medici di medicina generale, a cui spetterà gestire anche la diagnostica di primo livello, che non dovrà più essere delegata all’ospedale”, ha detto Martini.
Se la medicina di prossimità e la possibilità di curarsi a casa propria devono essere obiettivi a cui puntare, non solo per ottimizzare il sistema ma anche per il maggiore benessere che queste soluzioni offrono a pazienti e a cittadini, secondo Lorenzo Cammelli bisogna tuttavia fare attenzione a non spingere troppo verso questo livello assistenziale: “Non tutte le persone possono essere curate a domicilio. Esiste un punto oltre il quale lasciare il paziente a casa propria significa non fare più il suo interesse”. Per fare comprendere meglio il concetto, il direttore sanitario e direttore dei Servizi specialistici, Igiene, Qualità e Risk management dell’Asp Golgi Redaelli di Milano, ha evidenziato come “in Rsa non si gestisce la singola patologia di un paziente. Non si gestiscono neanche solo le patologie. È una presa in carico a tutto tondo, che si fa carico di una quantità di bisogni a cui il territorio, pur integrando tutte le sue professionalità, non può riuscire a rispondere”.
Per Cammelli un sistema di alto livello non dovrà quindi pensare solo all’integrazione ospedale-territorio. “Il passaggio fondamentale sarà il collegamento in rete con tutte le strutture che si prendono cura delle persone, che non sono solo gli ospedali, le case di comunità o i domicili del paziente”.
Rosario Cunsolo ha posto l’accento sulla necessità di soluzioni immediate contro la carenza di personale, che rischia di mettere in discussione qualsiasi progetto di riforma o assistenza. “Diciamo sempre che tutto gira intorno al paziente, ma dobbiamo è evidente che tutto gira anche intorno alle risorse umane”. Per il direttore medico dell’Ospedale Santa Venera e Santa Marta di Acireale, inoltre, il Covid “ha messo a nudo le debolezze del nostro Servizio sanitario nazionale, tra cui puntare eccessivamente sugli ospedali, anche per il fatto di essere strutture parte h24, sette giorni su sette”. Per Cunsolo è necessario però chiedersi quale presenza sarà in grado di garantire il territorio: “Senza una riflessione su questo aspetto, si rischia di non cambiare davvero le cose”.
Per il direttore medico dell’Ospedale Santa Venera e Santa Marta di Acireale sarà inoltre importante, a un certo punto, affrontare la questione della disparità di contratti tra medici del territorio e ospedalieri. Bisognerà poi puntare sulla prevenzione primaria, anche in forma centralizzata, “perché il Covid ha mostrato l’efficienza di una campagna di vaccinazione guidata da una regia centrale”.
È stato quindi Francesco Longo, a entrare nel dettaglio di un aspetto citato e condiviso da tutti i partecipati all’evento: la formazione. Per il docente della Bocconi non va solo assicurata, anche organizzata in modo ben diverso di come fatto finora. “Avremo figure professionali completamente nuove, come il ‘COTista’”, cioè il professionista che lavorerà presso le Centrali Operative Territoriali, che dovrà svolgere un mestiere complicato, perché sarà lui ha ‘fare pulizia’ delle segnalazioni e ad avviare i percorsi”. Inoltre “dobbiamo creare i 1350 nuovi coordinatori a casa di comunità e i 1200 coordinatori di ospedali di comunità”. Insomma, “4mila persone da formare in breve tempo, individuando anzitutto con chiarezza quali sono le competenze che saranno richieste e costruendo per loro percorsi formativi completamente nuovi”.
Per il docente della Bocconi costruire percorsi formativi innovativi significare anche “rompere gli attuali schemi, in cui ogni regione pensa a formare i propri professionisti. Se vogliamo aspirare alla convergenza del Ssn, dobbiamo creare contaminazione”, ha detto Longo. “La nuova formazione – ha aggiunto – dovrà essere dirompente e disruptiva. Dovrà puntare all’innovazione, alla multidisciplinarietà, all’integrazione e ad annullare le disomogenità. Dovrà creare manager e professionisti che siano essi stessi una spinta propulsiva per il sistema”. Dovrà, insomma, creare menti in grado di costruire soluzioni e non solo applicatori di procedure.
Anche Teresa Tedesco ha attribuito le “incomprensioni” tra professionisti del territorio e ospedalieri a un corto circuito del sistema che, non riuscendo a creare un loro coordinamento, ne ha allagato le distanze. “Abbiamo sempre ragionato per silos e non è stato diversamente per ospedale e territorio”, mentre sarebbero serviti “progetti formativi comuni”. Questi progetti “avrebbero consentito non solo di affinare le competenze dei professionisti, ma anche di creare una base comune e un legame che avrebbe poi favorito il coordinamento e la continuità delle cure”. Certamente poi, per il il direttore medico facenti funzioni del presidio ospedaliero Gubbio-Gualdo Tadino, sono “mancati anche gli strumenti digitali” per realizzare questa comunicazione anche quando, negli ultimi tempi, la tecnologia avrebbe avuto le potenzialità. Un ritardo che ora è urgente recuperare.
Della stessa opinione Fabia Franchi: “Siamo tutti convinti che la continuità della cura e l’integrazione siano un aspetto fondamentale di un Ssn.“Tuttavia abbiamo un sistema che già dalla nostra formazione di base ci abitua a lavorare singolarmente e a concentrarsi, nel caso della Medicina, sulla patologia piuttosto che sulla risoluzione del caso-paziente nel suo insieme”.
La responsabile dell’Assistenza Territoriale Regione Emilia Romagna ha sollevato poi il difficile problema della privacy, “che dovremmo trattare dal punto di vista istituzionale, perché ci pone spesso in grande difficoltà, soprattutto rispetto allo scambio di informazioni e dati, che diventa invece un elemento cruciale della sanità che vogliamo costruire”.
Franchi ha poi evidenziato come il cittadino debba essere protagonista di questa nuova cultura, “perché il percorso di cura dipende anzitutto da lui. C’è bisogno di rafforzare l’alleanza con i cittadini, l’alleanza con il paziente, richiamando alla salute come a qualcosa che riguarda tutti, una quesitone di comunità e non di istituzioni. Non ci sono alibi, la sanità e la salute la facciamo anche tutti noi, come cittadini”
“È chiaro – anche per Antonio D’Urso – che alla base c’è un problema culturale, perché se da 30 anni parliamo di continuità assistenziale e integrazione ospedale-territorio è evidente che non siamo stati bravi a raggiungere questo obiettivo, e non solo per la mancanza di finanziamenti del Ssn”. Per il responsabile dell’Assistenza Territoriale dell’Emilia Romagna la questione riguarda anche le risorse professionali: “Le riguarda è per numero, per tipologia di profili, per percorsi formativi, per aspetti contrattuali”.
Per D’Urso, nel percorso di riforma in corso la sanità digitale sarà un capitolo “non è irrilevante” anche per cercare in qualche modo di far fronte alla carenza di personale: “Le macchine non potranno mai sostituire in tutto le persone, ma forse potrà aiutare a ottimizzare le risorse umane in questo periodo di carenza”.
D’Urso a concluso con una riflessione sulle cure intermedie: “Lo scopo non è alleggerire gli ospedali ma garantire ai cittadini livelli di salute tali da ridurre il loro bisogno di ospedale. Quest’ultima, però, è una conseguenza. L’obiettivo è far stare meglio i cittadini”.
Anche Clemente Ponzetti ha evidenziato l’importanza di una cultura comune: “”Per sincronizzare, integrare, coordinare, bisogna anzitutto conoscersi, sapere chi fa cosa. Siamo tutti nodi di una rete e sapere come unire e sincronizzare quei nodi che poi, in sintesi, rappresentano il percorso di cura del paziente”. A questo scopo, le case di comunità potrebbero diventare “un importante luogo di incontro, da popolare con professionisti del territorio e anche ospedalieri, dove fare crescere questa conoscenza reciproca”.
Il coordinatore sanitario del Policlinico di Monza ha evidenziato le potenzialità di questa relazione ma anche i rischi: “Essere legati significa che se qualcosa si spezza in un punto, tutto il resto della rete ne risentirà. Avere finora vissuto a compartimenti stagni ci ha portati a prendere decisione senza tenere conto di questo aspetto, a volte anche a fare scelte egoistiche. Ma il sistema è una rete, se crolla una parte, va giù anche l’altra”.
“Siamo ancora qui – ha detto Emanuele Ciotti chiudendo i lavori – a ragionare insieme e a sollevare dubbi. Questo perché ci troviamo in un sistema molto difficile da gestire, dove da una parte si punta alla standardizzazione dei percorsi e dall’altra alla personalizzazione delle cure”. La complessità, il presidente Card dell’Emilia Romagna e direttore sanitario Ausl Ferrara, “non può però essere una scusante”.
Un’altra dicotomia da affrontare è poi, per Ciotti, quella che dal punto di vista professionale “richiede lavoro in team, multidisciplinare e multiprofessionale ma, allo stesso tempo, rivendica l’autonomia professionale, non soltanto medica, ma anche delle professioni sanitarie, che deve essere mantenuta”.
Per Ciotti siamo a un punto in cui “è necessario scegliere”. E questo significa anche “prendere delle decisioni coraggiose”, anche “chiudere determinati punti nascita o pronto soccorsi perché non attuali e confacenti al nuovo modello, se necessario. Dobbiamo farlo, perché non farlo rischia di compromettere l’intero modello che vogliamo costruire”.
Lucia Conti