Sono trascorsi 10 anni da quando il primo vaccino anti-meningococco B veniva autorizzato dall’Agenzia europea del farmaco Ema, e poco dopo dall’italiana Aifa. La paternità di questo grande avanzamento va certamente allo scienziato Rino Rappuoli, il padre della ‘reverse vaccinology’, la tecnica che ha permesso lo sviluppo di un vaccino con cui sono state poi salvate, nell’arco di un decennio, milioni di vite. La meningite da meningococco B “è una malattia gravissima. Quando uno l’ha vista una volta, non la vuole vedere di nuovo. I bambini e gli adolescenti colpiti hanno una mortalità molto alta, che va dal 10 al 20-30%, a seconda della gravità. Molti rimangono con sequele permanenti e abbiamo esempi di persone a cui sono state amputate braccia, gambe. Bebe Vio”, la nota atleta paralimpica tricolore, “è un esempio vivente di questo e purtroppo non è l’unica. Aver fatto un vaccino che previene questo tipo di malattia e che la previene in tutti i nuovi nati in Italia, in Inghilterra e in tanti Paesi nel mondo, è stato un traguardo importante”. E’ il racconto di Rappuoli stesso, oggi direttore scientifico della Fondazione Biotecnopolo di Siena, in occasione di questo importante ‘compleanno’.
A 10 anni dal via libera dell’Agenzia del farmaco Ema (gennaio 2013), dice “il mio augurio è che questo vaccino che sta proteggendo tanti bambini possa essere raccomandato in tutti i Paesi del pianeta, in modo che questa malattia possa scomparire”. Un obiettivo concretamente possibile? “Ad oggi almeno 70 milioni di dosi sono state usate nel mondo – dice – considerando un ciclo di 3 dosi significa all’incirca oltre 25 milioni di bambini protetti”. Il vaccino, dopo anni di tentativi falliti e un lungo percorso di sviluppo, “a questo punto c’è – conclude lo scienziato italiano – Basta vaccinare”.
Negli anni in cui il vaccino è stato creato, racconta lo scienziato in un’intervista all’Adnkronos Salute, “fare un vaccino contro questo batterio era una di quelle sfide su cui tutti, anche noi, avevamo fallito. Ormai eravamo arrivati alla conclusione che avremmo avuto bisogno di una tecnologia rivoluzionaria, che allora non c’era. Nel 1995, però, Craig Venter”, biologo statunitense, “pubblicò sulla rivista ‘Science’ un lavoro davvero rivoluzionario a quel tempo: era il primo genoma di un organismo vivente”. Per Rappuoli si accese una lampadina. La sua “era chiaramente una tecnologia rivoluzionaria e oggi sappiamo quanto il genoma abbia cambiato la vita, la biologia, il modo in cui facciamo tutto, ma all’epoca nessuno aveva mai visto un genoma intero”. Lo scienziato italiano fa subito le valigie. “Andai a visitare Venter negli Stati Uniti – ripercorre – e gli chiesi se avesse voluto sequenziare il genoma del batterio della meningite per vedere se questa nuova tecnologia ci poteva aiutare. Era il 1996. Lui stava già pensando che la sua prossima sfida sarebbe stato il genoma umano”, meta raggiunta nel 2000, “e non aveva gran voglia di occuparsi di un altro batterio. Voleva passare alla Drosophila”, il moscerino della frutta ancora oggi modello animale nel mondo della ricerca, e a organismi più complicati. “Allora – prosegue Rappuoli – io gli spiegai la gravità della malattia” che colpiva i bambini e gli adolescenti con alti tassi di mortalità, “e gli dissi: se sequenzi il genoma, posso usare quelle informazioni per fare un vaccino. Dopo circa mezz’ora si convinse a fare il genoma del meningococco B. Da lì partimmo con questa collaborazione poi durata una ventina d’anni, in cui noi usavamo le sue tecnologie rivoluzionarie per risolvere dei problemi”, rebus intricati “come il meningococco B”.
“Fu straordinario – ricorda lo scienziato italiano – perché usando il genoma in poco tempo capimmo che avremmo risolto il problema. Per dare un’idea, nel giro di 6 mesi avevamo scoperto più proteine e potenziali vaccini noi che tutti i microbiologi nella storia fino a quel momento. Era chiaro che la potenza della genomica era enorme. Da lì trovammo 100 potenziali vaccini candidati, poi scegliemmo il meglio di 30 e dopo un paio d’anni selezionammo i migliori tre, con cui abbiamo fatto poi il vaccino che è stato registrato”. Quel vaccino si chiama Bexsero* (Novartis). “Quei componenti per fare il vaccino nessuno li avrebbe mai scoperti a breve termine con le tecniche di allora – evidenzia l’esperto – c’era bisogno di questa tecnologia rivoluzionaria, che era il genoma. E quella era ‘l’età della pietra’ della genomica. Per capire, Craig Venter – l’uomo più veloce al mondo a fare un genoma – nel 1997 ha impiegato 14 mesi per un genoma di batterio. Oggi sequenziamo migliaia di genomi in un giorno”. Un tale impatto, come la rivelazione dei segreti della doppia elica, può averlo oggi quella che è ritenuta l’ultima frontiera, l’intelligenza artificiale? L’Ai, riflette Rappuoli, “è prorompente, perché riesce a macinare i dati che nessuna mente umana riuscirebbe neppure a immaginare e sta dando risultati straordinari, ormai è perfusa nelle tecnologie che usiamo”. Ma “l’intelligenza artificiale non trova soluzioni originali, dà soluzioni che sarebbero ovvie se uno riuscisse ad analizzare tutti questi dati, cosa che la nostra mente però non riuscirebbe mai a gestire” da sola. Quindi “la potenza è incredibile. L’Ai trova soluzioni che per la mente umana sarebbe impossibile trovare, e così velocemente. Anche se di intelligenza ha molto poco, poiché analizza tantissimi dati e dà delle conclusioni. Ma alla fine come usarli questi dati spetta sempre a noi”, puntualizza.
Oggi sicuramente la velocità con cui può arrivare a sviluppare farmaci ha messo il turbo. Tornando all’esempio del vaccino anti-meningococco B, Rappuoli che è stato perno del polo senese dedicato ai vaccini (di lunga tradizione dalla scuola di Achille Sclavo alla presenza oggi di Gsk) spiega: “La gente voleva avere vaccini contro il meningococco B dagli anni ’60. Negli anni ’70-80-90 ci sono state una lunga serie di prove cliniche tutte fallite. Finché non è arrivato il nostro vaccino. La scoperta scientifica la pubblichiamo su ‘Science’ nel 2000. Per trasformarla in un prodotto e avere la registrazione ci sono voluti 13 anni”, fra sviluppo, industrializzazione, fase 1, 2 e 3 dei trial, costruzione dell’impianto per fabbricare il vaccino, registrazione. Un’avventura complessa che, ammette, impressiona se si pensa a come i tempi si siano accorciati oggi con il vaccino anti-Covid.
La portata della sfida, del resto, è stata enorme. “Il primo aspetto è che il meningococco è un batterio che non ha due individui uguali, cambia tanto. Al confronto, il Covid è stabilissimo. Nel mondo ci sono milioni di ceppi diversi, è una sua autodifesa”, questo patogeno “ha dei meccanismi intrinsechi nel genoma per cui riesce a mettere sulla superficie qualcosa di completamente diverso in continuazione. Le molecole che si trovavano con i metodi classici funzionavano per un singolo ceppo e non per un altro”. Per esempio, “a fine anni ’90-inizio 2000, la Nuova Zelanda era alle prese con un’epidemia paurosa da circa 10 anni. E l’Organizzazione mondiale della sanità chiese a tutto il mondo di cercare di sviluppare vaccini. Noi trovammo la soluzione, perché il ceppo della Nuova Zelanda non cambiava molto e usandolo facemmo un vaccino classico, con cui abbiamo coperto nel 2004 in breve tempo la popolazione da 2 mesi a 20 anni. E la malattia è scomparsa”. Se in Nuova Zelanda Rappuoli per questo è stato considerato come un eroe, lo scienziato spiega come quello stesso vaccino aveva un problema: “Funzionava benissimo lì ma se lo si portava in America non copriva neppure il 2% dei ceppi, in Europa probabilmente il 15%. Non era la soluzione. C’è voluta la genomica e quella che ho chiamato ‘reverse vaccinology’ per trovare la soluzione universale”, scavando nelle pieghe del Dna.
Sono quindi 10 anni che il vaccino anti meningocco B è disponibile, “ma c’è ancora tanta esitazione. Sono certa che dipende dalla cattiva informazione, il gap è sempre informativo. Molti genitori non sono adeguatamente a conoscenza delle conseguenze della malattia e non sanno che c’è una copertura per i ceppi più frequenti della meningite. E’ considerata infatti una malattia rara per l’incidenza dei casi e porta i genitori, erroneamente, a sottostimare il vaccini: non si ritiene sia necessario anche quello per il ceppo B”, afferma l’avvocato Amelia Vitiello, presidente ‘Liberi dalla meningite’, Comitato nazionale contro la meningite. “E’ fuorviante anche la formula del vaccino obbligatorio e quello raccomandato – spiega Vitiello – L’obbligo è stato introdotto dall’allora ministro della Salute Lorenzin per l’accesso alle scuole, come atto dovuto, a causa del calo delle coperture, per evitare che ci fosse una recrudescenza di malattie tenute a bada dalla prevenzione. Restò fuori quello per la meningite – continua – In realtà tutte le vaccinazioni sono necessarie. Mi piacerebbe che ci fosse una coscienza collettiva tale da non comportare alcuna obbligatorietà, ma raggiungere, da una scelta consapevole, coperture anche superiori al 95%. Sarebbe molto bello perché significa che si potrebbero prevenire malattie molto invalidanti”.
I genitori devono affrontare il dilemma di prendere una decisione “non per se stessi, ma per il piccolo – riflette Vitiello – anche in natura il genitore protegge i piccoli. Ma proteggere non significa evitare un problema, ma sviscerarlo e, una volta appurati pro e contro, decidere. Il vaccino è medicina. Se abbiamo un caro con un tumore, accettiamo un percorso complesso, ma nei confronti della vaccinazione, che è medicina, ragioniamo diversamente. Il genitore ha il figlio sano, quindi è preoccupato che il vaccino contenga qualcosa di nocivo, ma invece di rivolgersi al medico, si informa sul web, nelle chat. Eppure – osserva la presidente – non chiedo a una parrucchiera come spostare un muro di casa. Hanno paura di fare la scelta sbagliata, si capisce, ma non vaccinare siamo sicuri che sia la scelta giusta? Come reagirebbero i figli se potessero decidere: si esporrebbero al rischio o si proteggerebbero? – domanda Vitiello – Credo che la metà dei figli di genitori contrari avrebbero un’altra risposta. Per Alessia, mia figlia, nel 2010 non ho avuto scelta, non c’era il vaccino, e ora lei non c’è più – si commuove – Mi ricordo che a gennaio 2013 comprai a mie spese il vaccino anti-meningococco B per me, mio marito e per le altre 2 figlie: sentii un senso di sollievo già dopo la prima inoculazione”.
“Il vaccino anti-meningococco B è sicuro. L’abbiamo introdotto nel 2013-14 per tutti i nuovi nati. Può dare in qualche caso dolore in sede d’inoculazione, un po’ di febbre: disturbi che si risolvono in pochi giorni. La raccomandazione è di farlo presto, proprio per l’alta incidenza nei primi mesi di vita”. Così Paolo Bonanni, ordinario di Igiene generale e applicata, Università di Firenze. “I genitori sono molto preoccupati quando sentono parlare di meningite – osserva Bonanni – Quella da meningococco B è una malattia non frequentissima, ma sicuramente molto pericolosa. Il picco di incidenza è tra 3-8 mesi di vita e quindi una sepsi, un’infezione generalizzata, può lasciare anche gravi conseguenze a lungo termine nel piccolo o portare alla morte. Nel piccolo, l’infezione può causare sordità, ritardo mentale, cicatrici, anche amputazioni degli arti, soprattutto se associata a sepsi”.
L’accesso al vaccino non è omogeneo sul territorio nazionale. “Nelle Regioni – continua il professore – si apre la vaccinazione da 61 giorni di vita, con esavalente e anti-pneumococco. Dopo 15 giorni si prevede quella per il meningococco B in modo che entro i 4 mesi, anche con la seconda dose, il piccolo sia coperto proprio per quando c’è il maggior rischio d’infezione. La terza dose – aggiunge – è prevista dopo l’anno di vita. Ci sono studi in corso per capire se serva un richiamo nell’adolescenza. Dovrebbe essere previsto in tutte le regioni sia nei piccoli sia negli adolescenti, come il quadrivalente, che copre per 4 ceppi di meningococco, ormai offerto gratuitamente. Non si capisce come mai per il ceppo B, solo in alcune regioni sia disponibile anche nell’età adolescenziale”.
Difficile fare una stima di quante vite siano state salvate dall’introduzione dell’anti-meningococco B, “ma sicuramente – ragiona Bonanni – ha ridotto, di diverse decine, il numero di casi”. Complessivamente, “ogni anno si verificano circa un centinaio di casi, ma durante la pandemia di Covid, come per tutte le infezioni trasmesse per via respiratoria, dato il distanziamento, l’uso di mascherina e le varie restrizioni, l’incidenza si è ridotta. A tale proposito, ci sono dati da alcuni Paesi che mostrano come, al ritorno della socialità, anche questa infezione torni a ripresentarsi ma, chiaramente, con valori di incidenza molto diversi – conclude – da quelli di varicella o influenza”.