Il Farma made in Italy resiste alla crisi.
Forte di un miliardo di investimenti in ricerca e sviluppo e di un’occupazione in crescita, il settore ha contribuito in modo determinante a rendere l’Italia la piattaforma produttiva farmaceutica in Europa con un fatturato complessivo annuo di oltre 31 miliardi di euro.
Le tredici aziende italiane del farmaco aderenti a Farmindustria, le cosiddette “Fab13”, Abiogen Pharma, Alfasigma, Angelini, Chiesi, Dompé, I.B.N. Savio, Italfarmaco, Kedrion, Mediolanum, Menarini, Molteni, Recordati e Zambon, hanno continuato a investire portando l’export a toccare livelli importanti con 24,8 miliardi, ricavi aggregati di oltre 11 miliardi e un + 57% degli occupati nel settore in dieci anni (2007-2017).
I dati del primato italiano arrivano dal Rapporto realizzato da Nomisma “Industria 2030. La Farmaceutica italiana e i suoi campioni alla sfida del nuovo paradigma manifatturiero”, presentato il 17 gennaio a Roma.
Ma la preoccupazione degli industriali è tangibile: senza un piano normativo chiaro per il futuro, difficile garantire lo stesso livello di sviluppo. “Anche nel 2018 siamo riusciti a crescere, rimaniamo un settore anticiclico rispetto ad altri, ma non cresciamo come prima”, spiega Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria.
Il mercato italiano ha reagito alla perdita di copertura brevettuale, che ha abbassato i prezzi della quasi totalità dei farmaci, con investimenti e internazionalizzazione ma per mantenere la crescita degli ultimi 10 anni serve una pianificazione su medio e lungo periodo precisa.
“Non può esistere crescita sostenibile senza investimenti – precisa Alberto Chiesi, presidente Chiesi – e la consapevolezza di poter contare sulla situazione di stabilità del Paese dal punto di vista della governance farmaceutica ha fatto sì che le aziende italiane abbiamo quasi raddoppiato gli investimenti tra il 2013 e il 2018.
In un settore come il nostro – prosegue – in cui il processo di ricerca e sviluppo di un farmaco dura mediamente una decina di anni, al termine dei quali è necessaria l’approvazione dalle agenzie regolatorie, è indispensabile poter contare su una visione di lungo termine delle attività aziendali che, a sua volta, richiede una ragionevole stabilità del sistema in cui le aziende operano”.
Dello stesso avviso è Francesco De Santis, presidente Italfarmaco: “In un settore in cui la competizione è totale, abbiamo bisogno di quella tranquillità interna che ci permette di pianificare e crescere. Parlando per l’azienda che rappresento, dal primo euro investito per un nuovo farmaco alla prima fattura sono passati 12 anni – prosegue De Santis – Sono questi i tempi con cui viviamo costantemente e se cambiamo le regole diventa molto difficile competere”.
A questo si aggiunge un altro tipo di preoccupazione che riguarda il principio di equivalenza terapeutica proposto dal documento di nuova governance del ministro della Salute Giulia Grillo: “Se l’equivalenza terapeutica non è riconosciuta a livello scientifico rappresenta un rischio non solo per l’industria, ma anche per i pazienti”, conclude De Santis.
Come settore, “siamo riusciti a inventare una internazionalizzazione senza delocalizzazione – precisa Lucia Aleotti, presidente Menarini – Siamo riusciti, come settore a capitale italiano, a portare in Italia produzioni che erano all’estero; siamo riusciti a rendere i nostri stabilimenti davvero competitivi.Ora, la preoccupazione sulla governance non è solo di carattere scientifico, e mi riferisco all’equivalenza terapeutica, è una preoccupazione anche di carattere aziendale”.
“Se il Servizio Sanitario Nazionale, che è il nostro unico acquirente in Italia, facesse davvero una cernita sui farmaci da dare ai pazienti, dovremmo chiederci cosa succede agli stabilimenti che producono i farmaci scartati? Cosa succede agli introiti derivati dalla ricerca su quei farmaci? Ecco, se tolgo la produzione ad uno stabilimento, rendo quello stabilimento non più competitivo”, conclude Aleotti.
Le Fab13 tutte, dunque, confermano la solidità del settore farmaceutico italiano ma denunciano i primi scricchiolii legati a incertezze di gestione.
“Abbiamo impiegato 25 anni per riportare a casa un settore che sembrava perso; il nostro Paese ha perso tanti altri settori, non ci possiamo permettere di perdere anche questo”, riassume efficacemente Sergio Dompé, presidente e ceo Dompé.