È di difficile individuazione e può essere fortemente invalidante, ma diagnosi precoce e trattamento appropriato sono le parole d’ordine per affrontare il Lupus Eritematoso Sistemico. Un dibattito che ha visto la partecipazione di: Rosa Pelissero (Gruppo LES Italiano Odv), Fabrizio Conti (AOU Policlinico Umberto I), Andrea Doria (Università di Padova), Roberto Gerli (SIR), Claudio Pisanelli (SIFO) e l’On. Bologna (XII Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati).
Queste le premesse al centro dell’ultimo National Summit, organizzato da SICS con il sostegno non condizionante di AstraZeneca, che ha visto un panel di esperti e rappresentanti istituzionali fare il punto sul LES, malattia infiammatoria cronica, di tipo autoimmune, che colpisce prevalentemente le donne, con un rapporto di 9:1 rispetto agli uomini, e con un picco di insorgenza nella fascia di età compresa tra i 15 e i 45 anni.
Il National Summit si è aperto proprio con l’intervento di Rosa Pelissero, Presidente del Gruppo LES Italiano, che ha inquadrato il Lupus da un punto di vista sociale, presentando quella che è l’esperienza pluridecennale dell’Associazione Pazienti che coordina. “Siamo nati nel 1987 con l’obiettivo di sensibilizzare sul Lupus Eritematoso Sistemico, una malattia autoimmune che si presenta con manifestazioni e prognosi molto variabili e la quale colpisce per il 90% donne in età fertile e lavorativa”, un dato in aumento che evidenzia la sfida messa in campo da questa patologia e l’urgenza di riuscire a fronteggiarla. In questo ambito la Presidentessa ha spiegato quelle che sono le cinque aree di intervento dell’associazione: la ricerca, l’assistenza, la formazione, la comunicazione e l’affiancamento che vedono come punto di partenza l’ascolto empatico del paziente, “essere ascoltati nella nostra unicità e anche nell’affrontare questa malattia. Anche se la terapia funziona, anche se la malattia è in remissione, non è detto che questo non comporti un malessere che può darci insonnia, senso di inadeguatezza, segni che il Lupus può lasciarci sulla pelle e non solo”. È una condizione importante che impatta sul paziente non solo in maniera fisica, ma anche psicosociale e che meriterebbe più attenzioni, a partire dal coinvolgimento e dalla preparazione degli specialisti, così da poter offrire un percorso terapeutico di facile accesso, chiaro, condiviso e che coinvolga un team multidisciplinare.
Al fine di costruire un percorso di cura ottimale e ridurre il danno d’organo causato dalla patologia, è importante che il LES venga diagnosticato il prima possibile, ma a causa dell’eterogeneità delle manifestazioni purtroppo non sempre è così facile. Come affrontare anche questa sfida e perché deve essere una priorità? Prova a rispondere Fabrizio Conti, Professore di Reumatologia presso il Dipartimento di Scienze Cliniche Internistiche, Anestesiologiche e Cardiovascolari della Sapienza Università di Roma e Direttore UOC di Reumatologia, AOU Policlinico Umberto I spiegando che “questa è una malattia autoimmune alla base della quale vi è una predisposizione genetica. Affinché la patologia si slatentizzi è necessario un fattore ambientale, un trigger, che induca il sistema immunitario a reagire. Diagnosticare precocemente la malattia dipende dalla sintomatologia che si presenta nelle fasi iniziali: sintomi costituzionali permettono una più rapida identificazione e diagnosi della malattia. È stato evidenziato che le manifestazioni sono molto variabili, le muscoloscheletriche e le mucocutanee sono tra le più comuni, e che il rene è tra gli organi più impattati dalla patologia, infatti, una delle complicanze del LES è la nefrite lupica.
Da questa eterogeneità di manifestazioni e severità deriva la necessità di ampliare le opzioni terapeutiche a disposizione per i pazienti con LES, con “l’obiettivo terapeutico di mandare la malattia in remissione, cioè senza segni e sintomi perché solo la remissione previene il danno irreversibile dell’organo”, sottolinea il Prof. Conti. Negli ultimi anni la formazione all’interno dei corsi universitari di Medicina e Chirurgia e nei corsi di specializzazione in Reumatologia ha permesso di approfondire la conoscenza del Lupus e la nascita di diverse Lupus Clinic ha contribuito a ridurre i tempi di diagnosi. Queste cliniche, come spiega l’esperto, “prendono in carico il paziente completamente e danno loro la possibilità di accedere a tutte le opzioni terapeutiche ad oggi disponibili”. Molto spesso il reumatologo è colui che guida la cura del LES ma a causa dell’eterogeneità della malattia il paziente potrebbe aver bisogno anche dell’intervento di altri specialisti, soprattutto se presenta gravi manifestazioni cutanee, neurologiche e renali”, evidenziando quindi la necessità di una rete medica integrata e dedicata alla terapia e alla diagnosi del Lupus.
La ricerca degli ultimi decenni ha poi permesso di aumentare il tasso di sopravvivenza e i farmaci a diposizione garantiscono ai pazienti di avere una prospettiva di vita certamente migliore, ma ancora troppo dipendente dai glucocorticoidi e dagli eventi avversi ad essi associati, causa di danno d’organo. Perciò, un altro punto messo in luce dal Professor Conti è la necessità di farmaci che permettano di ridurre l’uso di cortisone.
Spunti che Andrea Doria, Professore Ordinario di Reumatologia presso l’Università di Padova, coglie per offrire una panoramica sulle terapie al momento disponibili, spiegando che “questi nuovi farmaci non sostituiscono i farmaci precedenti, sono terapie da somministrare in aggiunta alla terapia standard, che attualmente si basa sull’uso del cortisone, dell’idrossiclorochina o di alcuni immunosoppressori. – Continua il Prof. Doria – Questi nuovi farmaci si sono dimostrati più efficaci della terapia standard nel migliorare le manifestazioni cliniche” permettendo di raggiungere l’obiettivo terapeutico della remissione clinica o di mantenere una ridotta attività di malattia. A livello regionale e territoriale ci sono importanti differenze in termini di utilizzo di farmaci biologici, accesso a sistemi diagnostici come possono essere i test di sieropositività per il Lupus e presenza di Lupus Clinic. “Il nostro obiettivo è quello di uniformare la modalità di gestione e di approccio del paziente, perché se riusciamo a farlo in tempi brevi, con le nuove terapie che abbiamo e trattando il paziente in maniera corretta, avremo veramente la possibilità di modificare la prognosi di questi pazienti”, conclude il Professore.
E quale può essere invece il ruolo ricoperto dalle Società Scientifiche, nello specifico dalla Società Italiana di Reumatologia (SIR) nel trattare e gestire una patologia così complessa a livello territoriale? “Come Società Italiana i primi movimenti sono quelli che vengono fatti con le Istituzioni Nazionali”, dichiara Roberto Gerli, Presidente SIR, Professore Ordinario di Reumatologia presso l’Università di Perugia e Direttore della S.C. di Reumatologia dell’A.O.U. di Perugia, il quale sottolinea che “negli ultimi tempi c’è stato un sinergismo d’azione tra le Associazioni di Pazienti e la Società Italiana di Reumatologia molto importante. Ovviamente le interlocuzioni sono state fatte anche con Istituzioni quali AIFA e AGENAS. Purtroppo, però, l’Italia è diventato un Paese federale dal punto di vista sanitario, noi lavoriamo a livello nazionale ma dobbiamo poi scontrarci anche con delle politiche regionali che qualche volta non sono perfettamente in sintonia”. Ciò che ancora una volta emerge è il bisogno di adottare dei piani condivisi a livello nazionale, la necessità di raggiungere un piano di base comune costruito su percorsi di diagnosi, terapia, raccolta e confronto tra dati ottenuti da studi solidi e finanziati. Per attuare ciò i partecipanti al National Summit sono d’accordo sul fatto che il PNRR sia il punto di partenza per rivedere il sistema e ricostruirlo in maniera efficace. Parlando di LES la formazione è fondamentale non solo per il reumatologo, punto di riferimento per la patologia, ma anche per tutti gli specialisti coinvolti nel patient journey del paziente con LES, senza dimenticare i Medici di Medicina Generale, che sono il primo reale confronto per il paziente.
Risulta poi indispensabile disegnare un PDTA (Percorso Diagnostico Terapeutico Assistenziale) perché, come spiega Claudio Pisanelli, Referente Nazionale SIFO per Farmindustria, Assobiomedica e Assogenerici, è uno strumento che permette di ottimizzare la presa in carico del paziente “dal momento della diagnosi, o anche prima, in poi, partendo dal Medico di Medicina Generale che è il primo interlocutore, fino ad arrivare al Centro di riferimento e alla somministrazione della terapia. Un PDTA potrebbe permettere di prevedere, o almeno alcuni lo prevedono, un rendiconto del rapporto di costo-efficacia delle terapie, permettendo di consolidare le decisioni mediche che vengono prese”: introdurre dei PDTA non significa solo delineare delle linee guida, ma vuol dire declinare i ruoli di ciascuno da un punto di vista clinico-gestionale. Quella di cui si dibatte è la direzione verso una visione futura sempre più ampia, articolata e complessa che si basa su un sistema di reti cliniche e digitali, perché l’informatizzazione sarà parte del processo: la creazione di registri, l’ottenimento di real world data tradotti velocemente e che non ci parlino solo di epidemiologia, ma anche di rapporto costo-efficacia e costo-utilità, tenendo in considerazione la qualità di vita dei pazienti.
Non bisogna dimenticare però che “il Lupus è donna”, come sottolinea Fabiola Bologna, Segretario della XII Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati, con un rapporto uomini-donne di 1:9 e per fronteggiare questa sfida serve un impegno mirato verso la medicina di genere e un’azione da parte delle Istituzioni su un duplice fronte: “quello della consapevolezza all’interno delle istituzioni”, spiega l’Onorevole, “e poi la possibilità di avere dei centri di eccellenza di riferimento che possano dare man forte a queste esigenze specifiche”. È qui che gli investimenti del PNRR possono fare la differenza, “perché anche grazie all’investimento nella digitalizzazione possiamo creare delle strutture di telemedicina e di rete, sia tra professionisti che tra professionisti e pazienti, creando delle connessioni user friendly”. Servono quindi personale numericamente adeguato e formato e una comunicazione dalle Istituzioni centrali al cittadino, così da poter costruire un flusso di informazioni dal paziente al Ministero della Salute, lavorando con tavoli interistituzionali per invitare gli amministratori regionali a recepire le indicazioni e lavorare insieme per superare eventuali difficoltà.
I “Take Home Message”
In sintesi i messaggi e le “call to action” dei partecipanti all’incontro:
• Rendere visibile la malattia e il peso socio-economico correlato, affinché il paziente con Lupus Eritematoso Sistemico (LES) sia capito, compreso e informato.
• Far sì che il LES venga trattato da reumatologi esperti nella gestione e nel trattamento della malattia, in quanto il LES è una malattia complessa, che si presenta con una sintomatologia estremamente eterogenea.
• Aumentare l’awareness circa gli obiettivi del trattamento del LES, ovvero raggiungere la remissione della malattia e ridurre e/o eliminare l’utilizzo del cortisone, grazie alle nuove terapie disponibili.
• Coinvolgere e sensibilizzare i Medici di Medicina Generale circa l’importanza del loro coinvolgimento nel patient journey dei pazienti al fine di migliorare le tempistiche di diagnosi della patologia e velocizzare la presa in carico del paziente.
• Aumentare il numero dei Centri di riferimento, affinché siano presenti in tutte le Regioni, minimizzando l’eterogeneità inter-regionali ad oggi presenti.
• Elaborare un percorso diagnostico terapeutico condiviso in cui venga coinvolto un team multidisciplinare di esperti.
• Lavorare a livello interistituzionale, consolidando il dialogo tra Governo, Parlamento, Regioni, Industria, Centri di riferimento e Associazioni di Pazienti, per far sì che il LES diventi una priorità nell’Agenda delle Istituzioni.
Irene Rosset