La sanità e il nuovo governo. “Presa in carico del tema salute, Pnrr, partnership ma anche l’impegno a sensibilizzare sulla cultura della donazione di sangue”. Intervista a Annarita Egidi, General Manager di Takeda

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“Il rischio è che si mettano in campo tanti progetti che poi non si parleranno l’uno con l’altro e che non produrranno il risultato sperato. Quindi quello che chiedo è in primis lavorare in Parlamento sul tema salute, perché la tutela della salute vuol dire avere una buona presa in carico dei pazienti, una buona gestione e organizzazione delle cure e chiaramente delle terapie”, spiega la General Manager dell’azienda giapponese leader nel campo delle malattie rare e dei plasmaderivati

Appassionata del lavoro che fa, è il ritratto della leadership gentile. Annarita Egidi, sposata e mamma di una bimba di 10 anni, ci racconta i primi mesi come General Manager della multinazionale farmaceutica giapponese Takeda. Ha le idee chiare su cosa chiedere al nuovo Governo che verrà ma anche di cosa serve per gestire la trasformazione in azienda.

Pochi giorni fa ci sono state le elezioni politiche. Che messaggio vuole mandare al nuovo Parlamento e al nuovo Governo che si costituirà nelle prossime settimane?
Ai nuovi Parlamentari e al nuovo Governo chiedo di mettere a fuoco e farsi carico di tutto il tema della salute. Ci sono alcuni aspetti che vengono affrontati, per esempio nel Pnrr, che aiuteranno tantissimo il miglioramento dei percorsi di cura dei pazienti. Mi riferisco alla digitalizzazione della pubblica amministrazione, all’ammodernamento delle strutture sanitarie, alla telemedicina, all’assistenza decentralizzata. Però, se la politica non prende seriamente in carico questo tema, il rischio è che si mettano in campo tanti progetti che poi non si parleranno l’uno con l’altro, senza arrivare al risultato sperato. Quindi quello che chiedo è in primis lavorare in Parlamento sul tema salute, perché la tutela della salute vuol dire avere una buona presa in carico dei pazienti, una buona gestione e organizzazione delle cure e chiaramente delle terapie. Vorrei poi che interloquissero maggiormente con il nostro comparto industriale, lavorare maggiormente in partnership perché molte cose, mettendo in comune le proprie esperienze, possono essere risolte più velocemente. L’abbiamo visto con la pandemia, le decisioni sono state prese più velocemente tagliando solo un po’ di burocrazia senza intaccare il processo di valutazione scientifica. Ma vorrei anche lanciare loro un vero e proprio appello…

Quale?
È fondamentale che la popolazione sia maggiormente sensibilizzata alla donazione di sangue e plasma e in questo momento in cui le donazioni sono diminuite è necessario fare fronte comune per arrivare a coprire il 100% del fabbisogno. Per farlo, però, bisogna lavorare insieme alle istituzioni perché in Italia il plasma che viene raccolto soddisfa circa il 60% del fabbisogno. I plasmaderivati sono farmaci salvavita, dalle immunoglobuline alle terapie per l’emofilia e per altre malattie rare. E quando si lavora con una materia prima come il plasma di cui non è possibile aumentare la produzione solo attraverso scelte di carattere industriale, è importante sollecitare e sensibilizzare alla donazione.

Anche il tema energetico è al centro del dibattito politico… forse più della salute
Tutti noi abbiamo subito l’impatto del costo dell’energia. Per Takeda, avendo due stabilimenti in Italia grandi e importanti, tra gli otto siti di produzione di farmaci plasma derivati nel mondo, quello energetico è un tema molto sensibile. Quello che stiamo notando, ragionando sui dati sia come azienda sia insieme a Farmindustria, è un enorme incremento dei costi energetici che arriva anche al 600%. Ma non solo energia anche materie prime come vetro, materiali di imballaggio leggero, la logistica e, soprattutto, la filiera della catena del freddo. Tutti elementi che hanno un impatto enorme in un settore che, peraltro, come è noto, ha prezzi controllati. Pur non essendo tra i settori più “energivori” chiediamo pertanto come comparto una tutela sostanziale sul fronte dei costi che sosteniamo il cui l’impatto è molto forte e da tenere conto anche in fase regolatoria così da essere in grado di continuare a fornire ai sistemi sanitari i farmaci necessari per i pazienti.

Facciamo un passo indietro di qualche anno. Come è iniziata la sua avventura nel settore farmaceutico?
Sono da 25 anni nel settore farmaceutico, ho studiato chimica e tecnologia farmaceutica alla Sapienza di Roma e sognavo di fare il ricercatore. Ha presente i bambini che piantano il fagiolo nel vaso e lo vedono crescere? Sono partita da lì. Dopo essermi laureata è stato più veloce trovare lavoro come informatore medico scientifico piuttosto che nel mondo della ricerca. Recordati stava per lanciare un farmaco frutto della ricerca italiana, il primo farmaco italiano approvato dall’agenzia europea, e partecipare a questa avventura è stata un’esperienza molto bella. In quegli anni sono però rimasta affascinata anche da altre professioni che non conoscevo poiché il mio mondo era quello delle discipline scientifiche.

In che senso?
Lavorando come informatore ho avuto modo di conoscere molte funzioni aziendali interessanti. Si poteva continuare a lavorare nell’ambito scientifico, facendo cose altrettanto attuali ma molto diverse. Quindi ho cambiato, con l’obiettivo di provare a entrare nel marketing. Mi sono trasferita a Verona in un momento particolare della vita, avevo voglia di allontanarmi un po’ da Roma e lì è iniziato un percorso da cui inaspettatamente ho avuto grandi soddisfazioni.

Fra i tanti ruoli che ha ricoperto quale le è stato più di aiuto per il ruolo che ricopre ora?
Fra le tante esperienze, istintivamente, direi il Market Access. Perché comunque nove anni di lavoro nell’accesso sia come tecnico, quindi pricing strategy e policy, sia come negoziatore nella seconda fase, mi hanno aiutato a conoscere il mercato, le dinamiche, a entrare anche nei temi più finanziari che invece non conoscevo. E proprio dall’accesso ho iniziato in Takeda… Takeda cercava qualcuno che potesse portare questo tipo di esperienza in azienda ed ho avuto la possibilità di costruire tantissimo inserendo diverse tipologie di figure professionali specifiche in questo ambito. Quando poi è andata via la General Manager che mi aveva assunto, con mia grandissima sorpresa sono stata incaricata di gestire ad interim la posizione. Nei quattro mesi in cui sono stata “ad interim” il Presidente Europe and Canada mi ha detto “qui decidi il tuo next step o nel business o in una carriera internazionale”… e mi sono innamorata del business.

E poi cos’è successo…?
Nel momento in cui è nata l’opportunità ho gestito la Business Unit di Oncologia, è un’area molto importante per Takeda. Un gruppo verticale indipendente, riporta all’Europa, proprio perché l’oncologia ha bisogno di una struttura più snella, più veloce, più corta. E in questa esperienza ho potuto gestire altre funzioni oltre al business, la medica, l’accesso, le vendite con tante fasi ad interim che hanno contraddistinto il mio percorso, fino alla fatidica telefonata…

Che telefonata?
A sorpresa, mi ha chiamato la mia referente Europea e mi ha detto: “Se hai una bottiglia di champagne in casa… mettila in frigorifero. Non ti posso dire nulla” e ha attaccato. E’ iniziato quindi il “cerimoniale” di comunicazione. Due ore di attesa prima di ricevere la chiamata dal global che mi annunciava il mio attuale incarico. In quella due ore, tra la bottiglia di champagne in frigo e la telefonata, ho pensato di tutto. Perché mai pensavo sarebbe stata l’Italia. Pensavo di fare prima un passaggio internazionale.

E quindi, com’ è iniziata l’esperienza da General Manager in Takeda?
Era l’aprile del 2021 e l’azienda era sotto pressione perché si lavorava totalmente in remoto, per giunta nel bel mezzo dell’integrazione con Shire. Eravamo in pieno lock down. Un’integrazione che nei suoi meccanismi ha funzionato benissimo, è andato tutto come doveva andare dal punto di vista tecnico ma non eravamo riusciti a integrare le persone, quindi era come avere ancora due aziende separate. Tante persone nel frattempo avevano lasciato l’azienda e tante nuove sono arrivate. Abbiamo avuto una ventina di on board tra aprile e maggio a cui abbiamo spedito il pc a casa… non avevano neanche visto gli uffici e dovevano iniziare un nuovo lavoro.

E come è andata?
Era importante a quel punto fare l’integrazione delle persone ma con una organizzazione che non riusciva a bilanciare la vita personale e la vita lavorativa che si erano completamente fuse. Durante le video call vedevamo la cameretta del bambino da cui si collegava il collega e i bambini che salivano sulla scrivania, il cane che abbaiava, cose a tutti note, quindi, siamo entrati molto di più nella vita privata dei colleghi. A quel punto bisognava conoscersi e quindi abbiamo fatto vari tentativi di convention, di riunioni nazionali che causa le varie ondate pandemiche sono saltate. Ma ci siamo riusciti, sia facendo in modo che i processi fossero dettati non dalla procedura, ma dal processo stesso, cercando di capire cosa andava fatto per ottenere un risultato e come farlo. L’obiettivo era compiere questo percorso di cambiamento senza stress. Abbiamo deciso di utilizzare il modello gestionale del Lean management che già avevamo iniziato a promuovere come azienda e a tal proposito credo che nella sanità sia una delle soluzioni principali per risolvere molte problematiche, perché alla fine un processo che funziona produce un esito positivo e questo vale in azienda, vale in produzione e vale in sanità, dove il beneficio va direttamente ai pazienti.

Come state interpretando il modello lavorativo post-pandemico?
In questa fase abbiamo lavorato molto sulla exceptional people experience che noi vogliamo garantire a chi lavora in Takeda. Quindi lavoro ibrido ma in modo funzionale, con un sostanziale equilibrio tra l’attività di persona e l’attività in remoto a seconda di come è più funzionale al lavoro che devo fare e alla mia vita. Siamo una delle aziende con la percentuale di smart working, 60%, più alta. Quindi molta energia, molta passione, molta partecipazione e molta voglia di avere successo. Nel corso di quest’anno abbiamo anche analizzato bene cosa funzionasse e cosa no e questo ci tengo molto a raccontarlo.

Allora ce lo racconti…
Takeda lavora essenzialmente su quattro aree terapeutiche: le malattie rare, la gastroenterologia, l’oncologia e le neuroscienze. Tra queste, le malattie rare rappresenteranno nei prossimi cinque anni il 70% del nostro portafoglio. E quando parliamo di malattie rare parliamo di migliaia di patologie, ciascuna con pochi pazienti, con una sintomatologia specifica e con una modalità di gestione specifica. Quello che abbiamo deciso di fare sin da ora è rinforzare la Business Unit Rare, che abbiamo creato da qualche mese e che ha cambiato guida a luglio. Rinforzarla significa formare dei team specifici di patologia molto preparati e dedicati a una specifica malattia rara. In questo modo assicuriamo una preparazione scientifica profonda e la conoscenza del percorso di gestione della malattia e, quindi, un team in grado di capire cosa serve per aiutare il paziente che è colui che ci poniamo l’obiettivo di supportare in tutto il suo percorso. Non è semplice. Se noi pensiamo che un medico di famiglia ha un massimale di 1.500 pazienti mentre una patologia rara può avere un’incidenza di un caso su 100.000, se quel caso capita, quel clinico deve saperlo riconoscere e sapere dove indirizzare quel paziente. Quindi la awareness è una parte fondamentale nel supporto alla diagnosi. Ci sono pazienti con malattie rare che impiegano anni per arrivare a una diagnosi. Ridurre questo tempo è una parte importante del nostro lavoro.

Parliamo di futuro. Per il 2023 quale sarò la sfida più grande da affrontare?
Abbiamo due sfide importanti. Una è chiaramente quella di consolidare questo modello sulle malattie rare e testarlo anche in un ambito nuovo, che è quello dei trapianti. Lanceremo un prodotto che servirà a preservare il dono delle persone e preservare il paziente che lo riceve. La seconda sfida è continuare a lavorare su malattie rare che hanno bisogni clinici non soddisfatti e con disparità di accesso alle terapie, come la sindrome dell’intestino corto. Un fronte questo, come altri, su cui stiamo lavorando insieme alle associazioni dei pazienti.

Lei è attiva anche sul fronte associativo. Che tipo di impegno sta svolgendo in Assobiotec?
È un’esperienza bellissima, della quale sono molto fiera e ne sento fortemente la responsabilità perché è una delle mie prime esperienze in ambito associativo. Sono nel Consiglio di Presidenza e responsabile dell’Area Terapia e Prevenzione e stiamo definendo, con il Presidente Fabrizio Greco, le priorità dell’associazione, perché è molto recente il cambio del vertice. Sotto la mia responsabilità ci sono le malattie rare, i farmaci orfani, le terapie avanzate, la ricerca e sviluppo, quindi tutto quello che concerne un l’attrazione di investimenti in Italia per la ricerca e sviluppo e lo sviluppo delle biotecnologie e l’accesso alle terapie innovative.

Che consiglio darebbe a un giovane che vorrebbe lavorare nel settore farmaceutico?
Sicuramente è fondamentale l’approfondimento scientifico, nonostante al settore interessino profili di varie provenienze. In questo settore vediamo persone, colleghi, laureati in economia, ingegneria. Per esempio ci sono tantissimi ingegneri gestionali ai vertici. In Takeda i direttori delle due business unit sono entrambi ingegneri gestionali, caratterizzati però da una grande competenza scientifica. Non parlo tanto della conoscenza dei meccanismi molecolari, parlo della gestione della patologia e delle sue conseguenze. E’ fondamentale comprendere che cosa prova la persona malata che hai di fronte. E per capirlo devi approfondire non tanto e non solo il meccanismo d’azione, ma il significato più profondo di cosa vuol dire avere quella malattia ed il suo impatto sulla qualità della vita.

 

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