La cardiologia ‘sposa’ sempre più spesso la tecnologia per migliorare la qualità di vita dei pazienti. Tutti conoscono i pacemaker, dispositivi medici piuttosto comuni che aiutano il cuore «bisognoso» a battere con regolarità. Il primo pacemaker esterno applicato, grande quanto una scatola da scarpe e con un filo elettrico che entrava nel torace, risale agli anni ’50. Da allora di strada ne è stata fatta tanta.
I pacemaker sono diventati impiantabili sottopelle, sempre più piccoli e corredati da elettrocateteri sempre più sottili. Correndo lungo le vene del torace, raggiungono il cuore per osservarlo e stimolarlo.
Le problematiche di questi dispositivi sono essenzialmente due: l’infezione o la rottura che ne determina il malfunzionamento. In questi casi l’unica terapia possibile è l’estrazione dei cateteri, con il successivo impianto di un nuovo sistema di stimolazione.
Proprio queste problematiche hanno fatto nascere, dai primi anni ’70, la sfida di creare un pacemaker tanto piccolo da essere racchiuso nel cuore. Allora la tecnologia non lo permetteva, ma cardiologi e ingegneri già immaginavano questa soluzione.
E una decina di anni fa negli Usa (nel gruppo c’era anche un ingegnere italiano) è iniziato il lavoro che, alla fine del 2013, ha permesso al sogno di diventare realtà, con il primo impianto sull’uomo: una microcapsula di meno di 1 centimetro cubo, del peso di 2 grammi, che racchiude batteria, circuiti elettronici, elettrodi e fissazione al tessuto cardiaco.
Da allora l’impianto di questo minuscolo pacemaker, Micra di Medtronic, si è diffuso in Europa, negli Stati Uniti e nel mondo. In Italia si contano 1.500 impianti, mentre a livello internazionale ne hanno beneficiato oltre 20.000 pazienti.
Finora uno dei limiti per la scelta o meno di un sistema leadless era l’età del paziente: la batteria, seppur longeva (oltre 13 anni) non era infinita e avrebbe implicato in un giovane l’obbligo di inserire un’altra microcapsula all’esaurimento della prima.
C’erano pochissimi casi isolati di estrazione del sistema Micra e tutti molto precoci (meno di un anno dal primo impianto). Questo fino a ieri. Perchè, nei giorni scorsi, nel Laboratorio di Elettrofisiologia degli Spedali Civili di Brescia (già riferimento a livello nazionale per l’estrazione di pacemaker e defibrillatori cardiaci infetti o malfunzionanti), per la prima volta al mondo, è stata eseguita la delicata estrazione dal muscolo cardiaco di un micropacemaker con successivo reimpianto di un nuovo dispositivo a una giovane paziente a circa tre anni dall’intervento.
L’operazione è stata ideata e eseguita da Antonio Curnis (responsabile del Laboratorio di Elettrofisiologia) e da Luca Bontempi ,con la collaborazione di Manuel Cerini e di Lorenza Inama. Curnis spiega che l’estrazione si è resa necessaria per l’esaurimento della batteria del pacemaker, a causa di una elevata energia necessaria a stimolare il cuore nel sito di impianto originale.
Non essendoci state esperienze precedenti, la soluzione più semplice era di abbandonare nel cuore il mini pacemaker e procedere all’impianto del nuovo stimolare accanto a quello esaurito. Se da un lato la soluzione a breve termine poteva essere la meno pericolosa e rappresentare la via più semplice, data la giovane età della paziente il problema si sarebbe riproposto fra qualche anno e in termini ben più seri, poichè non sarebbe stato possibile aggiungere un terzo stimolatore. Da qui la scelta coraggiosa, in un certo senso pionieristica, di procedere, per la prima volta al mondo, alla rimozione del micro pacemaker.
La difficoltà del trattamento, spiega Bontempi, è stata quella di utilizzare strumentazione chirurgica non dedicata abitualmente a questo tipo di procedura adattandola “in corsa” all’intervento. “Abbiamo dovuto pensare e programmare in maniera scientifica e minuziosa ogni passaggio per garantire la riuscita dell’intervento in assoluta sicurezza – precisa Bontempi -. Anche la paziente è stata coraggiosa nell’accettare la nostra soluzione terapeutica”.
In compenso, dopo solo due giorni di ricovero è stata dimessa. La scuola dell’Elettrofisiologia bresciana, che per prima nel mondo ha ideato e eseguito questo tipo di intervento, ha aperto dunque nuove prospettive all’utilizzo dei micro pacemaker per il trattamento delle aritmie cardiache, garantendo un futuro ancora migliore e fruibile da un maggior numero di pazienti.