Ci sono differenze sostanziali nel lavoro svolto dagli Psicologi nella gestione della cronicità nei vari contesti lavorativi: ospedale, territorio (ambulatori ASL, consultori familiari, case di cura, case della comunità) e studio privato. Gli psicologi ospedalieri e territoriali intercettano una percentuale nettamente superiore di pazienti con patologie croniche rispetto ai professionisti che operano in studio privato (rispettivamente 77% e 48% vs 16% dei pazienti mensili medi). È quanto emerge da uno studio condotto con l’obiettivo di esaminare e analizzare il ruolo dello Psicologo nel modello di assistenza territoriale alla cronicità, portato avanti da Roche, in collaborazione con il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP) ed Elma Research, il Progetto EmpowerMind.
Nel periodo dicembre 2023 – giugno 2024, lo studio ha prodotto risultati che derivano da due ricerche parallele, una qualitativa e una quantitativa: la prima, basata su 14 interviste somministrate a 10 Psicologi e 4 rappresentanti di associazioni dei pazienti, con l’obiettivo di comprendere i bisogni e le lacune formative dei professionisti sanitari nella gestione delle malattie croniche a livello territoriale; la seconda, che ha coinvolto 438 Psicologi attraverso un sondaggio online promosso dal CNOP, mirata a quantificare e definire le priorità dei bisogni e le esigenze formative nella gestione delle cronicità.
Ecco alcuni dei risultati: nel contesto delle patologie croniche, gli psicologi ospedalieri seguono principalmente pazienti con patologia oncologica, in particolare pazienti con tumore al seno. Inoltre, dalla ricerca è emerso che il 37% degli psicologi ospedalieri segue pazienti affetti da malattie neurodegenerative. Questa percentuale diventa molto più alta, arrivando al 59%, nel contesto degli psicologi di territorio e si abbassa al 29% per gli psicologi che esercitano in studio privato.
Dall’indagine emerge inoltre che il percorso psicologico ospedaliero prevede un numero determinato e limitato di visite terapeutiche, in media circa 10. In Lombardia, al momento, nel contesto delle Case di Comunità (CdC), il costo di tali visite è coperto dal Servizio Sanitario Nazionale senza necessità di ticket, anche se è previsto verrà introdotto a breve. Inoltre, si rileva come lo psicologo delle CdC, il quale non deve necessariamente avere una specializzazione, possa effettuare in maniera indipendente un percorso di sostegno col paziente con 8 incontri, più eventuali altri 8 o inviarlo a servizi di secondo livello, come Centri Psico Sociali, CPS, Servizi per le Tossicodipendenze, SERT, e altri). Al termine di queste visite, tra i pazienti che beneficerebbero di una continuazione del trattamento (57%), solo poco più della metà (62%) beneficia di una prosecuzione del percorso attraverso associazioni di pazienti, servizi sul territorio o specialisti; il restante 38% dei pazienti riceve solo un consiglio generale per proseguire la terapia.
Ma come si inquadra la figura professionale dello psicologo nella presa in carico dei pazienti con malattie croniche? “Quando pensiamo al ruolo dello psicologo nella malattia cronica – afferma Davide Lazzari, presidente CNOP dobbiamo far riferimento al Piano nazionale delle malattie croniche, che delinea il ruolo e le competenze della professione psicologica in questo ambito. In realtà le figure psicologiche sono diverse, perché con le persone con malattie croniche interagirà lo psicologo di base, lo psicologo ospedaliero, lo psicologo dei servizi specialistici delle strutture pubbliche. Ci sono dunque diverse figure potenzialmente coinvolte e l’obiettivo è quello di favorire il processo di adattamento alla patologia, aiutare il paziente e il caregiver nella migliore gestione possibile della malattia, quindi aderenza alle cure, stress legato alla patologia, percezione e vissuto della malattia, inclusi eventuali disturbi e disagi psichici ad essa correlati”.
“Per quanto riguarda la presa in carico del paziente con le patologie croniche, oggi abbiamo una situazione piuttosto critica, perché l’80% di queste persone vengono seguite da psicologi nel privato, che i pazienti pagano di tasca propria, oppure da psicologi con borse di studio finanziate da associazioni di malati. Questa è una delle principali voci di spesa sia dei malati che delle associazioni di malati. Quindi c’è una situazione fortemente disfunzionale che andrebbe risolta, almeno con l’attivazione di quello che prevede la legge 176 del 2020: una funzione aziendale di psicologia, cioè un coordinamento delle attività psicologiche in ciascuna Asl, in modo da poter mettere a rete anche i contributi di queste figure che vengono fornite dalle associazioni. Chiaramente il lavoro dello psicologo dovrebbe essere un lavoro integrato con le altre figure, cioè lavorare sia in ospedale che nel territorio a fianco del medico, dell’infermiere e degli altri operatori sanitari che compongono l’equipe multidisciplinare”.
In merito agli unmet need degli Psicologi nella gestione dei pazienti con patologia cronica e/o oncologici, dai dati del progetto EmpowerMind emergono come bisogni di primaria importanza, per il 90%, quelli di natura formativa (e.g. mancanza di formazione adeguata sulle patologie fisiche) e per la stessa percentuale quelli strutturali, come la mancanza di risorse economiche e la carenza di personale. “I bisogni degli psicologi nella gestione della cronicità sono sicuramente bisogni formativi – sottolinea Lazzari – perché lo psicologo deve conoscere le diverse malattie croniche, quindi avere una formazione adeguata per capire quali sono i problemi clinici legati, nonché la specificità degli interventi psicologici di provata efficacia nelle diverse patologie. Oggi si parla molto di psiconcologia, psico cardiologia, psico diabetologia. Vorrei però dire che questo è giustificato negli IRCCS, negli istituti di ricerca o ospedali specializzati su una patologia. Ma in generale le problematiche psicologiche al 75-80% sono simili nelle diverse patologie. Quindi quello che serve è uno psicologo che abbia una conoscenza generale di queste situazioni e sia in grado di intervenire. La seconda cosa che serve è una organizzazione. Noi da anni chiediamo che in ogni azienda sanitaria e ospedaliera ci sia un coordinatore di tutte le attività psicologiche, quella che si chiama funzione aziendale della psicologia, così come definita dalla legge 176 del 2020: solo se abbiamo un coordinamento delle attività abbiamo anche la possibilità di ottimizzare la presenza degli psicologi, di distribuirla laddove serve, di garantire una corretta collaborazione con le diverse figure che si occupano ai diversi livelli del paziente con patologie croniche”.
Il progetto EmpowerMind ha inoltre esplorato e approfondito il ruolo dello Psicologo nel nuovo modello di assistenza territoriale delle CdC, come previsto da DM77/2022 e PNRR – Missione 6. Dallo studio emerge come fondamentale anche un potenziamento della collaborazione tra Psicologo e medico di medicina generale. “Le Case di comunità – interviene Antonella Ferrari, Medico di Medicina Generale presso Città di Milano, Municipio 2 – sono una nuova modalità organizzativa territoriale della medicina, della psicologia, delle cure infermieristiche e di vari professionisti. A queste case di comunità, che sono delle realtà distrettuali sul territorio, accedono i cittadini e trovano una serie di servizi e la possibilità di fare esami ed accertamenti diagnostici. Ma non si tratta di andare solo a fare degli esami: ci sono delle figure professionali che accolgono i cittadini e danno loro delle precise indicazioni. E questa è la novità. Ci sono gli infermieri, ci sono gli psicologi, ci sono anche medici che gestiscono l’aspetto di prevenzione. Tutte queste figure possono dare degli aiuti per le prestazioni sanitarie, ma anche per fabbisogni sociali e psicologici. Un aiuto quindi di primo livello, che indirizza poi il cittadino su come espletare le proprie necessità”.
Le CdC possono dunque svolgere un ruolo di primaria importanza nella cura del paziente con patologia cronica e nel migliorare l’efficienza dei team multidisciplinari. Tuttavia, la ricerca EmpowerMind evidenzia che il 26% degli Psicologi non è ancora a conoscenza dell’esistenza delle CdC, mentre il 74% ne ha solo sentito parlare. La conoscenza delle CdC, inoltre, è più diffusa tra gli Psicologi più anziani o con maggiore esperienza professionale.
“Queste case di comunità – continua Ferrari – non sono però uniformi come organizzazione e distribuzione in tutto il territorio: questo varia da regione a regione e anche nel contesto della stessa città. Ad esempio, a Milano ci sono delle case di comunità già ben avviate che non fanno solo esami, ma svolgono anche il ruolo di prevenzione organizzando anche delle giornate dedicate: la prevenzione del tumore del colon, la giornata della vaccinazione, iniziative dedicate alle donne in menopausa, oppure al disagio dei giovani. E stanno diventando sempre più un riferimento per i cittadini che, se hanno dei problemi legati alla salute, lì possono trovare un aiuto per risolverli. Lo psicologo delle case di comunità in alcune realtà è già operativo ed è una figura di primo livello che può concretamente attuare dei percorsi proprio per accogliere l’ansia, la somatizzazione, il disagio della patologia cronica. È sicuramente un ruolo che andrà potenziato ed è un’opportunità perché non c’è attualmente un’interazione tra noi e gli psicologi, se non per un’iniziativa personale. Io parlo della mia esperienza: conosco alcuni psicologi di cui ho apprezzato negli anni la capacità professionale e a cui talvolta indirizzo i miei pazienti, oppure sono anche gli psicologi che contattano me, e ci scambiamo delle informazioni, delle conoscenze sul percorso reciproco del paziente perché la persona va valutata nella sua totalità. Questo scambio a livello di casa di comunità ancora non c’è, c’è con l’infermiere ma non con lo psicologo. Si spera che questo ruolo diventi sempre più presente sul territorio, per dare alle persone l’opportunità di accedere ad una consulenza psicologica tramite il servizio sanitario nazionale”.
“Il servizio psicologico pubblico è estremamente rilevante – afferma Valeria Fava, Responsabile Coordinamento Politiche della Salute presso Cittadinanzattiva – ce lo dicono le persone stesse: noi coordiniamo oltre 110 associazioni di malati cronici e redigiamo ogni anno un report proprio sulle principali criticità che avvertono i pazienti cronici anche in questo ambito. E devo dire che uno degli aspetti che più spesso viene segnalato è una carenza del supporto psicologico: oltre il 40% delle persone che ci hanno risposto al questionario afferma che è un elemento ancora molto mancante nel percorso di cura. Invece sappiamo quanto il supporto psicologico nei confronti di una persona che ha una patologia cronica sia fondamentale per sentirsi accompagnati, sostenuti in un percorso difficile da gestire, come dimostrano anche migliori esiti di salute e di successo della terapia generale. Il supporto psicologico aiuta a migliorare anche la comunicazione e la gestione della relazione e delle emozioni che si sviluppano nel confronto tra il paziente e il personale sanitario. Sarebbe importante che la figura dello psicologo fosse strutturalmente prevista all’interno dei percorsi di cura e non fosse presente solo a macchia di leopardo come spesso accade. Le associazioni di pazienti come Cittadinanzattiva possono offrire validi contributi soprattutto assicurando un orientamento ai servizi, indicando quali possono essere le soluzioni di accesso al supporto psicologico. E possono anche aiutare a risolvere situazioni di difficoltà ad accedere ai servizi. Possiamo anche attivare percorsi di ascolto nei confronti delle persone e organizzare attività di tempo libero. Insomma, le attività che le associazioni e le organizzazioni civiche svolgono sono molte. Anche, ad esempio, quelle di attivarsi in un’interlocuzione istituzionale ai vari livelli per raccogliere i bisogni dei cittadini e offrirli in una lettura del loro vissuto e dei loro bisogni, proponendoli alle istituzioni affinché si possa trovare una soluzione comune soddisfacente”.
“Il ruolo che viene associato alla figura dello psicologo da parte dei cittadini – evidenzia Fava – è dunque molto rilevante e ci viene chiesto non solamente dai pazienti, ma anche dai caregiver, che vivono la sofferenza e a volte la pesantezza di sobbarcarsi aspetti emotivi di un percorso di cura molto complesso, per il quale a volte si denuncia un senso di abbandono. È necessario fare un passaggio ulteriore rispetto alla costruzione di una cultura fondata sull’importanza dell’assistenza psicologica a partire dal medico di famiglia, il primo presidio sanitario per i cittadini. Ultimamente si parla molto dell’opportunità di co-progettare percorsi di cura insieme ai cittadini e insieme ai pazienti. Pensiamo che sia un elemento di grande qualità, di grande innovazione anche della programmazione sanitaria e dei servizi sul territorio. Tutto questo sta avvenendo anche grazie alle riforme dell’assistenza territoriale, ed è un elemento molto positivo perché consente di pianificare un percorso che sia condiviso e quindi faccia sentire il paziente partecipe, ma soprattutto consente di strutturare dei servizi che siano adeguati al contesto in cui la persona vive. Anche le case della comunità che si andranno progressivamente a costituire dovranno organizzarsi per garantire servizi che siano attenti alle esigenze di quel territorio, studiandone le difficoltà, le lacune e andandole a colmare. Offrendo non un eccesso di servizi, ma servizi adeguati”.