Fragilità e auto-stigma: queste le due parole chiave emerse da una indagine condotta da Fondazione Icona, e supportata da ViiV HC, su 531 pazienti. I risultati sono stati presentati all’Italian Conference on AIDS and Antiviral Research di quest’anno (ICAR 2022) in corso a Bergamo. Una persona con HIV su due rivela infatti la propria condizione di HIV-positività solo all’equipe sanitaria dalla quale è seguita. Sono dunque le persone clinicamente più fragili che faticano a parlare del proprio status di HIV al di fuori del contesto sanitario, evidenziando come l’auto-stigma, conseguenza della discriminazione, sia un problema trasversale e che necessita di essere indagato in primis medici e infermieri.
Già lo scorso anno, in occasione dell’ICAR 2021, erano stati divulgati i primi risultati di una indagine effettuata nei primi mesi del 2021, in forma anonima, attraverso un questionario mirato a capire l’esperienza sulla terapia e sulla gestione della malattia di persone con HIV. Ulteriori dati presentati quest’anno pongono l’accento su come sia importante non ignorare tutti gli aspetti di salute e socialità della persona con HIV, in quanto connessi allo stato di benessere o malessere.
“La presa in carico delle persone con HIV non può più prescindere dal considerare anche il vissuto della persona in merito alla malattia stessa per definire gli interventi”, ha detto Antonella Cingolani, dell’Università Cattolica S. Cuore, Fondazione Policlinico “A. Gemelli”, Roma. “Gli aspetti di socialità, quindi di rivelazione o meno della HIV-positività, costituiscono un buon indicatore per allertare il clinico e l’equipe sanitaria su sostegni e proposte di interventi specifici”.
L’auto-stigma rappresenta un fattore di rischio importante correlato a esiti negativi sulla salute. Nello specifico, la mancanza di rivelazione del proprio stato di HIV-positività può rappresentare un buon indicatore surrogato di auto-stigma. L’indagine su 531 persone con HIV ha evidenziato che il 48% (n = 257) di esse ha rivelato a qualcuno (quindi oltre l’equipe sanitaria che la prende in carico) lo stato di HIV-positività, contro il 52% (n = 324) che non lo ha fatto.
Non si è riscontrata alcuna differenza statisticamente significativa tra questi due gruppi in merito al carico di trattamento e malattia, tuttavia la diagnosi recente (p=0,02), la maggior compromissione immunologica (p=0,02) e la fase iniziale del percorso terapeutico (p=0,01) sembrano caratteristiche più legate al timore di parlare agli altri della condizione di HIV-positività. In particolare, si è visto che queste sono anche quelle persone che chiedono di parlare con l’equipe sanitaria di altri argomenti di salute oltre l’HIV e che desiderano avere anche informazioni sulle nuove opzioni terapeutiche.
Nessuna particolare differenza sullo stato di salute auto-riportato tra chi fa outing per HIV e chi non lo fa. Mentre colpisce come la mancata rivelazione dell’infezione da HIV al di fuori dell’ambiente sanitario interessi particolarmente le persone con HIV più fragili come mostra l’associazione indipendente con bassi CD4, evidenziando come l’auto-stigma, conseguenza della discriminazione, sia un problema trasversale e che necessita di essere attenzionato da chi circonda (sanitari e non) le persone con HIV; inoltre, le persone più immunocompromesse probabilmente sentono maggiormente il peso della infezione, che nelle loro condizioni può esitare in malattia grave.
“Si tratta di dati che, pur con i limiti dell’indagine che abbiamo sempre esplicitato, offrono un importante spunto per costruire altri progetti di ricerca che mirino a fotografare e promuovere nuovi interventi di salute sempre più mirati”, ha commentato Alessandro Tavelli, Study Coordinator di Fondazione Icona e data manager dell’indagine, di Milano.
In conclusione, ha affermato Antonella D’Arminio Monforte, ASST Santi Paolo e Carlo, Milano e Presidente di Fondazione ICONA “La rete ICONA e la collaborazione con le organizzazioni di pazienti ci consentono un osservatorio privilegiato: cercare di attenuare il più possibile il già difficile contesto di fragilità clinica è un dovere per la rete di clinici e associazioni”.